• Questi corridoi hanno un che di logorante e famigliare. Sempre identici a sé stessi. Ti ricordano un dolore, una frustrazione dalla quale, è strano, ma non riesci ad allontanarti, a staccarti.

    Ho mille ricordi diversi che si ambientano nello stesso posto, tra queste mura malandate del Dipartimento di Fisica. Tutto resta uguale, immutabile. Mi sembra di essere Alice che mangia il pasticcino (o beve la pozione, non ricordo) e diventa sempre più grande finché le braccia non le escono dalle finestre e la testa dal camino. Mi aggiro per questi corridoi, quando vado verso il bagno mi chiedo quante stracazzo di volte avrò fatto questa strada in 5 anni e mezzo. Il personale, i docenti, i dottorandi che mi incrociano o hanno gli uffici lì mi vedranno come una specie di testuggine centenaria. Avete tutti presente, per chi ha frequentato l’università, quei personaggi che vedete perennemente aggirarsi per la facoltà, diventano delle sorta di mascotte dopo un po’. Chi sarà? Cosa farà? Quanti anni avrà? Io mi sento così, uno spirito nel purgatorio che vaga all’infinito. E’ eccessivo paragonare Fisica al Purgatorio di Dante, me ne rendo conto. Però la metafora rende l’idea secondo me.

    Viene da chiedersi “che cosa ci faccio ancora qui?”. Perché mi sono incaponita su questa follia? Perché continuo a fare avanti e indietro per questo corridoio sperando al ritorno dal bagno di avere la soluzione? Che dopo una soddisfacente pisciata andrà meglio? Non è mai così ma quel breve tragitto, ogni volta, da 5 anni mi dà un briciolo di conforto. Perché in realtà non ho la risposta a queste domande. So solo che sono arrivata fin qui, e quindi devo tenere duro e andare avanti. So solo che quando sogno ad occhi aperti il momento della mia laurea mi viene da piangere e quindi forse vale la pena arrivarci.

    Mi mancano 5 esami. Sono stufa di sentire questo fottuto numero. Sono 5 da troppi mesi oramai, sembrano diventati come i muri e i corridoi di questo posto…non cambiano. E sono anche troppi i mesi passati ad assillarmi sul perché non riesco, perché prima riuscivo, perché faccio sempre gli stessi errori, perché sono qui ancora, perché non sono diversa. La mia testa è piena di perché, ma a pensarci bene è anche piena di “e se…”. E se alla fine non ce la facessi? E se fosse tutto inutile? E se non fossi all’altezza? E se il mio futuro fosse diverso da come l’avevo immaginato? E se fossi bloccata dalla mia paura, dal mio senso di inadeguatezza? E se fossi troppo vecchia? Fa ridere, vero? Ventiquattro anni, sentirsi troppo vecchi. Però succede quando dai esami con gente che ha uno, due, tre anni meno di te. Ci pensi un po’, alla cosa della testuggine di prima.

    Sono giunta alla conclusione che i “perché” e gli “e se…” dopo un po’ rompono il cazzo. Soprattutto quando sono buttati lì così, retorici, non vogliono una risposta, te la stanno implicitamente dando loro. Vogliono solo che pensi al disastro che sei. Forse per questo non sarò una brillante fisica, i miei perché sono un po’ fini a sé stessi, non si mettono davvero in discussione. Non voglio capire sinceramente come funzionano le cose, a volte voglio solo sapere perché diamine io, Camilla Bocchi, non riesco a capirlo.

    Forse è meglio concentrarsi sui “come” e sul presente. Pensare al futuro è utile ma è anche una bastardata, che se ci pensi troppo ti blocchi nel presente, il futuro diventa fumoso, e allora vai nel panico e fai ancora più casini nel presente, finché nel futuro vedi solo dannazione eterna (sempre per rimanere sulle metafore dantesche). Non ti sfiora il pensiero che forse è il caso di lasciar perdere le predizioni approssimative degli “e se…”, il rimuginio sul passato dei “perché”, e abitare il momento, l’attualità. Chiedersi “come”. Come cambiare, come fare qualcosa di diverso, come stare bene, stare meglio. Come andare avanti. Trovare dei modi efficaci per raggiungere piccoli obiettivi che, se raggiunti, hanno un potere così grande.

    Quindi eccomi, bevo il caffè delle macchinette, con disgusto perché odio il caffè, ma per qualche malsano motivo devo berlo. Sto appoggiata col culo al calorifero del primo piano, davanti alla biblioteca. Guardo i dettagli intorno a me e penso che è proprio tutto uguale, chissà come lo vedevo anni fa, questo grigiume fuori dalla finestra, tipico pavese, questa scale salite e scese da gente che nella mia testa è sempre rigorosamente più in gamba di me. Sono una bella egoriferita anche io. Come se tutto in questo posto fosse rapportato alla mia bravura, sono solo io a fare questi confronti. Il dipartimento, quest’edificio che sembra un manicomio abbandonato, semplicemente mi accoglie, mi sfinisce, mi sopporta e mi ignora.

    Una cosa fa la differenza però: le persone. “Le persone sono tutto quello che hai” diceva Belinda in Fleabag. Ed è vero. Le persone che ho conosciuto qui dentro, con cui ho condiviso momenti, spazi, esperienze. E non parlo solo degli amici, quelli si sa che ci sono. Parlo della gente di questo posto. Di chi si conosce dando gli esami, di chi si incontra per questi corridoi, a lezione, prendendo quello schifoso caffè e raccontandosi le proprie storie, la propria stanchezza. Anime in pena con gastriti croniche e difficoltà a dormire. Spero di ricordarmi di quante più persone possibile. Sono l’unica cosa così bella, così mutevole in questo dipartimento statico. Come piccoli fiorellini colorati in un terreno arido.

    Oggi ho scritto ad un amico dopo un sacco di tempo che non ci sentivamo. Non eravamo amici stretti però abbiamo condiviso molti pranzi assieme. E’ un ragazzo intelligente, portato per la fisica, timido all’inverosimile. Dopo un po’, ma non so bene da quando, ho smesso di vederlo girare in biblioteca, per i corridoi, a pranzo. Io ho cambiato abitudini, location di studio, ma avevo un brutto presentimento. Così gli ho scritto e mi ha detto che ha lasciato l’università. Quel ragazzo così brillante. Mi sono dispiaciuta tanto, ma poi ho pensato che forse c’era da dispiacersi per come doveva stare prima di prendere quella decisione. Gli auguro il meglio.

    E’ stata questa notizia che mi ha fatto scrivere. E mi ha fatto anche pensare: Camilla, sei proprio una stronza testarda.

  • Una cosa che mi è rimasta appiccicata in qualche modo da una parziale educazione cattolica è quel bisogno morboso del sacrificio per dare un senso alla propria esistenza. E chiariamoci, non sono stata credente poi così a lungo, ma per qualche motivo non sono più riuscita a sbarazzarmi di questo pensiero costante, di quest’abitudine a misurare il mio valore e il riconoscimento delle mie azioni sulla base del sacrificio compiuto. E diventa una questione completamente simbolica, non è più solo “quanto impegno hai dedicato a questa tal cosa”, diventa una necessità di drogarsi con un po’ di sana sofferenza per liberarsi del senso di colpa. Come può essere la nicotina: non ti farà bene, non ti calmerà sul lungo periodo quindi non è utile, però in quel preciso istante ti allevia. Nel mio caso il sacrificio mi allevia dal senso di colpa. Se ho sofferto, se ho faticato sento di non meritarmi il fallimento, di poter riposare e godermi la mia vita con la consapevolezza che la mia serenità in quel momento mi è dovuta. Non si sa da chi, ma mi è dovuta. Sono in pace con me stessa. La frustrazione, la gastrite, la fatica mi faranno vivere meglio quello che verrà dopo. Prima il dovere poi il piacere si dice, no? E invece nessuno ti deve un bel cazzo di nulla.

    La tua, la mia sofferenza non hanno necessariamente significato, e nessuno ti premia per essere stato male. Se il tuo impegno ti rende solo terribilmente stressato ma non è in grado di farti raggiungere i risultati cui ambisci è inutile. La realtà è questa. Ci si fa del male sperando che questo sia sufficiente ad ottenere quello che si vuole, perché anche se non crediamo in dio, crediamo che qualcosa di soprannaturale dovrebbe aver visto quanto abbiamo sofferto e capire che ci meritiamo una bella ricompensa. Purtroppo non basta, e la buona notizia è che potremmo struggerci di meno e trovare invece un modo più efficace di raggiungere gli obiettivi che ci siamo preposti. Perché dedizione, impegno e fatica non bastano, le buone intenzioni, sacrificare il proprio benessere sia mentale che fisico (a volte) non porta per forza a dei frutti. Non importa quanto meticolosamente un ingegnere possa cercare di progettare e costruire un aereo, se non vola è inutile. L’aereo non spiccherà certo il volo perché riconosce gli sforzi del povero ingegnere che non ci ha dormito la notte. L’aereo se ne sbatte del sacrificio e del senso di colpa.

    Questo è un aspetto con cui ho dovuto avere a che fare. Capire che l’assiduità con cui si svolge una mansione per raggiungere un certo scopo è fondamentale, ma fondamentale è anche capire qual è il modo giusto di farlo per riuscire ad ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, o qualcosa che assomigli a questo magico processo. Entra in gioco, almeno nella mia testa anche l’aspetto punitivo di questo ragionamento malsano. Il sacrificio è la punizione per il fatto di essere improduttivi. Da che ho a che fare con lo studio convivo con questo problema, non so dividere il mio tempo nel dare il 100% o rilassarmi come si deve. La mia mente va al 60% e questa percentuale per rendere effettivo ciò che sto facendo deve essere spalmata su tutto il tempo che ho a disposizione. Rilassarsi non è contemplato e non lo è perché è giusto che io mi punisca per la mia inefficienza.

    Perché è importante rendersi conto di quanto è deleterio questo ragionamento? Intanto lo è per riuscire ad affrontare i propri doveri e la propria vita di tutti i giorni con più serenità credo. Ci sono già molti stress a cui si può essere sottoposti e spesso è difficile non vivere in uno stato semi-costante di ansia, per questo è importante il come. Come si gestiscono i propri impegni, il proprio tempo. Perché il nostro tempo è prezioso, non è una cosa che dobbiamo abituarci a barattare con facilità, una cosa che è scontato decidere di dedicare interamente al proprio lavoro o studio. Mi sto accorgendo che, per quanto queste attività assorbano i nostri pensieri, nella vita c’è ben altro, e spesso ci risulta difficile slegarci da esse. Riuscirvi, dedicarvi tutto il nostro tempo e le nostre energie diventa un modo per acquisire il nostro valore, di poterci valutare.

    Ma c’è un altro motivo per cui è meglio imparare il prima possibile a non autoinfliggersi inutili sofferenze nella speranza che queste portino ad un risultato. Perché alle volte capita che quelle sofferenze siano necessarie, che bisogni rimboccarsi le maniche, dare tutti sé stessi, consumare fino all’ultimo briciolo della propria energia per riuscire ad adempiere ad un certo compito. Può capitare, e può capitare anche che non sia sufficiente. Che qualcuno valuterà solo una piccola performance finale che dovrebbe rappresentare tutto il lavoro fatto alle spalle, e se quella performance, per un milione di motivi, si rivelerà carente, tutto il resto non avrà importanza.

    Mi sto accorgendo a malincuore che, a volte, l’università è anche questo. Professori che non ti guardano in faccia, che non guardano a chi sei, a come stai nel momento in cui arrivi a fare un esame dopo aver dedicato la tua vita per mesi e mesi solo a quello. La tua è una performance, e se non sei performante vieni bloccato lì. Ovviamente non riguarda qualunque professore, né qualunque studente questo discorso. Però è il motivo per cui forse ad un certo punto bisogna rivedere le proprie priorità, ricominciare a dare un valore a sé stessi in quanto esseri umani e non macchine con determinate prestazioni. Perché capiterà così spesso di essere visti solo per ciò che si produce, almeno noi con noi stessi dovremmo provare a vederci come persone, e imparare a riconoscere cosa ci serve per vivere in questo mondo, con questa dannata testa, e con gli altri.

  • Mi pento di tutto il tempo perso. Eppure non so come rimediare, in effetti non si può, ma non so nemmeno come evitare di perderne ancora. Sento di andare troppo lentamente per questa società, troppo lentamente rispetto ai miei sogni e alle mie aspettative. Indietro rispetto a tutti e tutto. Sento che la mia vita prosegue mentre io mi trascino arrancando e la osservo e continuo a reagire, a fare quel passettino in più, quello sforzo, ma è così misero per colmare il distacco. Oramai sembra un abisso.

    Vorrei che ci fossero giornate più lunghe, no anzi, vorrei che esistesse qualcosa come l’NZT di Limitless, una qualche sostanza che mi faccia sfruttare il 100% del mio cervello, quelle puttanate lì che si vedono nei film, avete presente? Ecco, vorrei averne scorte infinite. E andare velocissima. Capire, assimilare, studiare, relazioni sociali, sport, interessi, libri da leggere, cose da scrivere, costruire il proprio futuro, mattoncino dopo mattoncino. Finirò questo percorso e sarò un prodotto senza valore per il mercato del lavoro? Una macchina vecchia e lenta con la testa piena di astrazioni fisiche e concetti matematici. Cosa offro io al mondo? Oltre alle noiose e sporadiche lamentele impresse su un blog sconosciuto?

    Ci sono così tante domande da farsi, che si vorrebbero fare a qualcuno, ma nessuno può darvi una risposta perché ognuno è impegnato a rispondere alle proprie. Risposte tutte diverse. Rimpiango di aver chiesto sempre poco o niente ai professori quando non capivo, perché ora mi rendo conto di quanto sia importante avere una soluzione.

    E’ così complesso il mondo in cui viviamo, e sento di non capirne nulla. Poi hey, c’è chi non ne capisce nulla come me e si inventa teorie complottiste sui giganti, io almeno me ne sto qui nel mio angolino di disperazione senza disturbare nessuno. Però si capisce perché è così facile provare questo senso di smarrimento, uno dei motivi per cui è difficile pensare a cosa si vorrebbe fare del proprio futuro è che con l’università ci si incanala in una strada ben precisa, e spesso molto classica. Certo può avere svariate e affascinanti diramazioni, ma porta i più ignoranti o i più ingenui (parlo di me) a pensare che il futuro si proponga in quelle statiche alternative: medicina, fisica, giurisprudenza, scienze dell’educazione, sociologia ecc ecc… E non è neanche lontanamente paragonabile a tutto quello che si può creare, scoprire, il mondo del lavoro si potrebbe dire che non ha praticamente più limiti. Ma ci entra ancora gente, come la sottoscritta, che ha una limitata immaginazione, se si somma questo alla mancanza di tempo da dedicare ai propri interessi ci si ritrova in un vicolo cieco.

    E si ritorna al tempo. Il tempo nemmeno lui mi aspetta, giustamente ha altro da fare, altri da inseguire. Rimango indietro io, a leggere queste pagine di Teoria delle Distribuzioni, con la voglia di capire, ma con questa paura di essere sempre più in ritardo che distrae, distoglie, rallenta. La mia mente vola via in qualsiasi altro pertugio che mi distragga dalla consapevolezza, mi porta persino in quella saletta dove si alcolizza la mia coscienza, e quando sono lì la coscienza mi dice “vai, veloce! Non perdere tempo!” E io vorrei solo risponderle che non lo perderei se non fossi lì ad ascoltare i suoi giudizi, o forse sì. Difficile abitare la propria mente, ti crea delle illusioni e poi ti abbandona, non ti aiuta neanche un po’, come se non avessi bisogno di lei. E tutti corrono e corrono, servirebbe un momento per pensare, anche se di pensare, a dirla tutta, ne ho un po’ le palle piene.

  • L’altra sera sono andata col mio ragazzo a vedere Elvis al cinema. Carino ma nulla di che, l’acustica pessima del cinema non ha aiutato particolarmente ad apprezzarne il valore. Però verso la fine viene mostrato un video, uno degli ultimi concerti di Elvis Presley, poco prima di morire, sovrappeso e annebbiato da svariate sostanze. Era il 1977, cantava Unchained Melody ed era lì, tutto sé stesso, con tutto il peso e l’immondizia di una vita consumata dal presente, dall’intensità del palco. Quella canzone mi ha emozionato perché è stato come vederlo condividere completamente un ultimo intimo momento con il suo pubblico, mostrare che per quanto potesse andare tutto male quello rimaneva l’apice, lo era sempre stato.

    E ho pensato che questi artisti leggendari, intramontabili, vivono qualcosa di distruttivo, perché incomparabile a qualsiasi altra esperienza o emozione. Solo alcuni possono permetterselo, il costo è quasi sempre di sacrificare la propria vita per quel rapporto, quel legame, quell’amore con la musica, il pubblico, il palco e con sé stessi in un certo senso. Ed è interessante, partendo da qui, riflettere sul peso che ha la felicità nella nostra vita, su quanto la sua costante ricerca possa essere un cammino costellato di infelicità.

    Perché quello di Elvis, come di altri artisti, è un caso emblematico? Mentre finivo il film pensavo che, nonostante non lo considerassi un capolavoro, ero così felice che qualcuno l’avesse fatto, che qualcuno ne avesse voluto onorare la memoria. Mi ha sollevato aver conosciuto di più questa storia, come se un piccolo pezzetto di quello che è stato il Re del Rock potesse rimanere con me. Nella mia testa pensavo “tranquillo, non verrai dimenticato”. Nel film traspariva come una delle sue principali preoccupazioni verso la fine della sua carriera. Ma perché era così importante? Perché vivere il presente in quel modo è tanto adrenalinico, riempiente, prezioso, quanto evanescente. Penso che chi viva di momenti del genere abbia costantemente bisogno di provare quella sensazione, di essere lì su quel palco, oppure tutto perde di senso. L’unico senso diventano quei momenti, quella versione di sé, come se fosse la sola esistente.

    E il rischio è di essere troppo dipendenti da quella felicità, che poi la vita normale non è più semplicemente ordinaria ma diventa un fardello, diventa vuoto e oblio, spazio e tempo che separano uno sprazzo di gioia da un altro. Come dicevo prima credo che vivere così sia insostenibile, i pochi che l’hanno fatto hanno ceduto al mondo e al pubblico tutti se stessi consumandosi come candele. La ricerca della felicità è rischiosa e fin dai tempi più antichi è la nostra ossessione. Ci siamo evoluti a partire da questa spinta, da questa necessità. Ne siamo così ossessionati come specie umana che la maggior parte delle nostre gesta, di ciò che facciamo e costruiamo con prospettiva è diretto a portarci lì, ad essere felici.

    C’è un momento in cui ci si accorge che qualcosa rispetto a quando si era bambini è cambiato. Quando si è piccoli il Natale o le vacanze vengono attese con trepidazione e quando arrivano sono la cosa più bella di sempre. Crescendo quell’euforia c’è ma rimane confinata in una sorta di preambolo della felicità. Quando finalmente arriva la festa ci si accorge che nulla è cambiato, dentro di noi non scatta nessun ingranaggio, non c’è quella magia. Ma allora cos’è successo? Non sono più momenti gioiosi? O forse lo erano anche quelli precedenti? Questo per dire che siamo sempre in attesa di qualcosa di meglio forse, tanto da farci sfuggire quello che c’è già per quanto bello possa essere.

    Come si può apprezzare la felicità se si vuole essere sempre felici? La vita non è fatta di questo, né è fatta per questo e, attenzione, non credo che debba esserci solo dolore. Credo che sia importante fare pace col fatto che non tutto è straordinario, che siamo creature troppo complesse per aspettarci che la nostra esistenza possa ridursi ad un certo punto ad una sorta di Truman Show. Imparare ad apprezzare le cose più piccole è quello che allena. Prendere quello che viene, trovare il modo di gestirlo e andare avanti, i momenti belli ci sono sempre anche senza botti e fuochi d’artificio. Badate che il mio non vuole essere un vuoto discorso motivazionale, perché sono ben conscia del fatto che molti conducono vite ed esistenze o anche solo periodi di continua sofferenza, stress e fatica. Questo esula un po’ dal mio discorso, perché non voglio parlare di dolore. Vorrei cercare di capire come mai c’è sempre tanto significato dietro a quello che facciamo e come lo viviamo, un peso enorme su quanto siamo felici, tanta aspettativa sulla nostra vita, sugli obiettivi che ci poniamo e tanti dubbi sull’impegno sufficiente a raggiungerli. C’è sempre un senso più profondo da cercare, e non credo che sia necessariamente sbagliato, però penso anche che forse non c’è.

    In queste righe non troverete risposte, speravo di trovarle anche io scrivendo ma mi sono accorta che per domande come queste bisogna vivere un pezzetto alla volta. Che la nostra comprensione della vita viene modificata e ampliata continuamente. Le convinzioni che abbiamo su ciò che è giusto e sbagliato, sul nostro scopo, quello che crediamo di conoscere di noi stessi e del mondo è in continuo mutamento. Dopo il film io e il mio ragazzo avremo parlato per un’ora seduti in macchina, scervellandoci per capire: il senso allora qual è? Come bisogna vivere? Che cosa bisogna fare? Inseguire la felicità? Non inseguirla? E se non la si insegue, che cosa si insegue? È necessario avere qualcosa da rincorrere o da raggiungere? O si può accettare che il vento ci porti un po’ dove vuole, come diceva il buon Forrest Gump, e cercare di fare del proprio meglio, ovunque questo ci porti? Sono solo tante domande. Tante spaventose domande. L’unica cosa certa è che vivere e costruire, costruirsi, guardare sia il futuro, sia il presente, fa tutto una paura fottuta. Eppure la vita è uno di quegli esami pieni di esercizi diversi, qualsiasi cosa tu possa aver appreso ti ritroverai comunque un appello con esercizi fuori dalla grazia di dio, mai visti, senza avere la più pallida idea di come affrontarli. Alcuni si saltano per paura di sbagliare, per mancanza di idee, in altri ci si arrischia e si inventa, altri ancora presentano elementi con cui abbiamo familiarità e che riusciamo a risolvere. Ma alla fine nessuno verrà a valutare le tue scelte, sarai solo tu con quello che hai imparato.

  • Credo di essere una persona che si mette abbastanza in discussione. Forse troppo. Perché ogni tanto vorrei vivere di qualche cieca convinzione, vorrei avere qualche superficiale certezza e andare avanti per la mia strada a muso duro. Come chi quando deve fare un tuffo da una roccia molto alta si lancia senza neanche pensare a quanto è profonda l’acqua in quel punto, se ci sono degli scogli sotto, se riuscirà a saltare abbastanza in là da non sfracellarsi il sedere contro la parete rocciosa ecc ecc…. Ecco io non ne sono capace. Se dovessi tuffarmi passerei un quarto d’ora a pensare a tutte le possibili implicazioni del mio salto, che siano fisiche, sociali, morali, sant’iddio, è solo un salto. No, non lo è. Perché anche se tutti riescono a farlo non significa che io ci riuscirò, e anche quando sarò quasi convinta ci sarà sempre quel momentino in cui sono lì lì per lanciarmi ma qualcosa mi blocca.

    Vorrei lanciarmi da questo scoglio e basta. Che succederà mai? Tanto non posso prevederlo. Forse vorrei essere come chi ha un tuffo preferito, e lo sa fare benissimo, ed è certo della sua efficacia. Io invece no, so solo che dovrò buttarmi come un sacco di patate abbandonandomi all’oblio. E questo a volte dà conforto, perché certo che per gli altri è più facile, sanno come tuffarsi, provateci voi a farlo a cazzo di cane, o a dover fare duecento lezioni di tuffo di testa prima e poi ne parliamo. Ma la situazione non cambia. Io rimango lì, un sacco di patate fermo, ma pur sempre un sacco di patate.

    Pensavo qualche tempo fa di aver trovato la mia strada, era il mio sogno avere un sogno, avere un’ambizione, avere una passione, qualcosa per cui correre e tuffarmi. E invece no, condannata all’autoanalisi (se vi fa schifo analisi funzionale credetemi, questa è peggio). Ed eccomi qui, il mio sogno si deve essere buttato per andare a nuotare con altre persone vedendo che io tergiversavo. Spogliata della mia piccola gratificante ambizione. Perché? Perché mi sembra che ogni strada sia aperta a chi è già bravo in qualcosa, a chi è già esperto, a chi è già così interessato e così appassionato da voler intraprendere proprio quel percorso. Cosa resta per chi, come me, sta ancora cercando di capire cosa gli piace? Per chi vorrebbe provare e vedere come va? Solitamente colloqui motivazionali durante i quali, in mezzo ad altre 800 persone che darebbero i reni per fare la stessa cosa, alla domanda “perché vorresti intraprendere questo percorso?” risponderesti “boh…per provare, ero curioso”.

    Bisogna correre dei rischi. E io lo so. Voglio dire credo di aver corso un grosso rischio, stando a sentire il mio senso di inadeguatezza, iscrivendomi a fisica e accettando il fatto di dover fare schifo, sentirmi stupida, sentire perennemente di essere meno adatta e meno motivata di altri per questa materia. Meno motivata. E’ questa la cosa che mi distrugge. Vorrei provare a fare tutto e sotto sotto sento di non essere adatta a fare niente. Ed è stancante rischiare, ogni tanto piacerebbe fare qualcosa e andar lì a colpo sicuro.

    E in tutto ciò sto notando una cosa negativa dell’università o forse di Fisica. Ovvero che per quanto il percorso che ho fatto mi abbia arricchito tantissimo e non mi penta della mia scelta, il tempo che Fisica sta assorbendo e ha assorbito dalla mia vita è stato sottratto a quella parte di me che avrebbe voluto apprendere e conoscere altre cose. Sviluppare altri interessi. E andrebbe anche bene se uno poi volesse continuare la carriera da fisico, ma non è il mio caso. E’ difficile essere produttivi al 100% in ogni ramo della propria vita ogni giorno: pensare allo studio, pensare alla propria salute fisica e mentale, pensare al futuro, alla propria relazione, ai propri interessi e come coltivarli e quali coltivare. Tenendo conto che per passare gli esami lo studio dovrebbe occupare il 60% delle mio giornate, in quel 40% si concentra il resto. E attenzione, questo è possibile se idealmente siete sempre produttivi e sul pezzo in quel 60%. Ciò implica non considerare le giornate no, gli imprevisti, l’esigenza di socialità, la mancanza di concentrazione, la stanchezza e i problemi fisici. Quindi considerando che non sono neanche lontanamente così prestante direi che il tempo che in una giornata va dedicato allo studio nel mio caso è meglio farlo salire al 90%. E non è essere duri con sé stessi, è una semplice valutazione dei propri limiti. Quindi dopo uno sguardo più accurato alle proprie capacità direi che ci rimane quel 10% di tempo da dedicare a tutto il resto. Non c’è tempo per il defaticamento, per fermarsi. Ma per quanto ci si voglia sentire indistruttibili quel tempo serve perché se non c’è i pensieri troveranno il modo di occupare altri momenti della giornata e se ne approprieranno facendoti perdere altro tempo e diluendo all’infinito le ore di cui avresti bisogno per portare a termine quantomeno i tuoi doveri di studente.

    Mi riferisco in questo caso solo alle giornate prototipo di uno studente A) perché non ho mai lavorato quindi non posso affermare con certezza che questo valga anche per un lavoratore e B) perché lo studio ha di base quella comodissima ed insopportabile prerogativa dell’essere liberi. Quando lavori l’obbligo che ti lega alle tue mansioni ti dà poco tempo di riflettere sulla tua vita e sul suo significato, sul quanto sei produttivo o sulle motivazioni per cui non riesci ad esserlo sempre. Lo devi essere e basta. Bello studiare, bella quell’eterno mettersi alla prova ogni giorno per vedere quanto si riesce ad essere delusi da sé stessi e dalle proprie prestazioni.

    Ritornando a noi, il senso di questo soliloquio delirante è di mettere nero su bianco il mio disorientamento. Sto cercando di capire negli ultimi mesi, e Tim Urban con questo articolo mi sta aiutando a farlo, cos’è che voglio da me stessa e per me stessa. Mi chiedo se i miei desideri siano autenticamente miei, se e quanto le mie paure e i condizionamenti dall’esterno e da altre persone giochino un ruolo nel capire come voglio che sia la mia vita nei prossimi anni. Una cosa che ho compreso è che non ho modo di prevederlo, e che pensare al futuro è sacrosanto, ed è anche dovuto ai nostri genitori che non potranno mantenerci in eterno, ma allo stesso tempo forse è anche legittimo accettare quello che ci arriva. Accettare l’incertezza e approcciarsi al futuro con senso di sfida, di scoperta e cercare di impegnarsi in ciò che diventerà la propria occupazione, qualunque essa sia (escludendo cose illegali, non impegnatevi troppo in quelle, mi raccomando).

    Sento di dover prendere una decisione che determinerà il resto della mia vita ma non è così, o meglio certo, le mie scelte condizioneranno il mio futuro, ma non è l’ultima domanda di “Chi vuol essere milionario?”, non è che perdo tutto o vinco tutto. E ritornando al discorso di prima, quando lo studio permea così tanto la tua vita poi è difficile ritagliarsi anche dello spazio per indagare sulle varie possibilità che si hanno, per pensare al futuro appunto. Soprattutto se è una cosa che spaventa e per la quale bisogna avere tempo, attenzione e la pazienza di guardarsi intorno. Molti dei dubbi che ho sono anche legati al fatto che non conosco realmente le mie possibilità. Mi intriga scoprire cose nuove ed allo stesso tempo mi spaventa accorgermi di quanto sia prossima al momento delle decisioni, e che magari alcune dovrò prenderle adesso per giocare d’anticipo. Ma temo che farmi prendere dall’ansia di imboccare la strada giusta una volta laureata possa solo peggiorare le mie scelte. L’altro lato di un nostro desiderio può essere la paura dell’opposto, è una delle cose sagge che diceva Tim Urban nel suo articolo.

    Per concludere, che aspettative abbiamo sulla nostra vita? Forse il dubbio e l’angoscia che accompagnano questo periodo sono legate al fatto di essermi sempre aspettata troppo dalla me del futuro. Delegando al “poi” la responsabilità di fare qualcosa di grandioso, di diventare una persona grandiosa. E invece mi guardo, in questo momento ho 24 anni, sono un’adulta a tutti gli effetti, con l’accessorio in più di essere mantenuta, e non ho nulla di grandioso. Solo un’accozzaglia di incertezze come quelle che avevo prima di scegliere l’università. Sembra di tornare sempre un po’ a questo punto. E faccio sempre più fatica a scindere tra ciò che è vero e quelle che sono le palle e le giustificazioni che mi costruisco. E sempre quella sensazione di dover saltare senza neanche sapere come farlo.

    Camilla

  • Oggi è il 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne. E qui si apre sempre un dibattito gigante che potrebbe avere molti spunti di riflessione se non si trasformasse nell’ennesima lotta, nel tentativo di scagionarsi e di dare la colpa a qualcuno. La maggior parte delle opinioni saranno superficiali (come spesso succede con le opinioni): “le donne sono un fiorellino prezioso e non vanno toccate”, “i femminicidi sono tanti e brutti, buuu”.
    E poi il giorno dopo via con i titoloni in cui il padre di famiglia, il buon lavoratore preso da un raptus di gelosia uccide la moglie o la compagna. La brutalità passa in secondo piano. Vabbè l’avrà anche pugnalata diciotto volte ma era pur sempre un uomo accecato dall’ammòre. I femminicidi sono uno dei pochi casi in cui si è così indulgenti con i colpevoli. Attenzione non sono per il giustizialismo, sacrosanta la presunzione di non colpevolezza. Ma allo stesso tempo sacrosanto il rispetto verso la vittima, verso le atrocità che può aver subito. La discussione non è su come è successo, non è su come prevenire queste violenze, ma sul perché. Come se ci fossero delle giustificazioni, delle attenuanti in base al tipo di rapporto che si aveva con la vittima. L’uomo in queste dinamiche è sempre punito ma assolto allo stesso tempo. Non si descrive l’episodio con la freddezza e il rispetto che meriterebbe “l’uomo x ha ucciso la donna x”, c’è sempre qualche inutile dettaglio in più per convincerci che la vittima ha una responsabilità su quello che le succede, per quanto tremendo sia, sotto sotto, la colpa è sua.


    Perché questo discorso vi dà fastidio?
    Parlo con voi uomini, i pochi che leggeranno questo post.
    Vi dà fastidio perché c’è un problema. Perché siete d’accordo, come potreste non esserlo? La maggior parte di voi non farebbe mai nulla di simile, la maggior parte di voi non userebbe violenza di alcun tipo su una donna. Eppure siete infastiditi da questo discorso, preferite evitarlo. Se vostra sorella venisse da voi a dire che il compagno le fa del male reagireste in un certo modo, ma se leggete un articolo di giornale in cui si condanna la retorica sui femminicidi, si parla di responsabilità maschile, ecco, lì è diverso, lì è troppo, lì è generalizzare e attribuire a tutti gli uomini responsabilità per azioni che non hanno compiuto. Perché voi siete brave persone, non siete come gli altri. E questa storia dei femminicidi non vi riguarda.
    E non vi riguarda nemmeno quella del catcalling, perché voi non lo fate. Però vi sembra eccessivo una legge che lo punisca in qualche modo. E sotto ai meme in cui si dice che “provarci con una tipa nel 2021 è come schivare i raggi laser per entrare nel caveau di una banca”un po’ ci ridete. In effetti cavolo, non ci si può neanche più provare tranquillamente che una chiama al catcalling, alla molestia. Queste tipe di oggi non stanno più allo scherzo, al complimento, alla mano sulla coscia, al bacio non richiesto, alla palpata in discoteca che poi se una viene vestita così è perché vuole farsi palpare diciamocelo.
    È indifferente cosa dica o cosa pensi. Se è vestita così, se te la fa annusare, allora tutto è lecito, perché è in quel modo che ti dà il suo consenso, no? Non è il “no” dopo che conta. E se sei uno di quei bravi ragazzi che non insiste se riceve un no, lei rimane comunque una gran puttana, che si è fatta desiderare e ti ha lasciato a bocca asciutta.
    Queste boiate da nazi-femministe non vi riguardano, perché voi siete i buoni.
    Ed è sempre fuori da ogni dubbio che lo siate, è una certezza inconfutabile.
    Eppure dall’inizio dell’anno ci sono state un centinaio di vittime di femminicidio; quasi tutte le donne che conoscerete hanno subito un qualche tipo di molestia più o meno grave, ma comunque quel tipo di molestia per cui la sera ti congedi da un’amica chiedendole di scriverti quando è arrivata a casa. Cominciano a esserci molti casi isolati, non trovate?
    Però non riguarda nessuno, sono tutte mele marce, tutti uomini esasperati dal comportamento della donna.


    Il problema più grande siete voi persone per bene. Perché siete così convinti di esserlo da non riconoscere più un problema quando c’è. Vi infastidisce a prescindere l’insinuazione che sia anche un po’ colpa vostra. Vi infastidisce che le donne siano vittime perché anche voi vorreste arrogarvi il diritto di esserlo ogni tanto, per questo ogni discussione che tiri fuori come le differenze di genere permeano le nostre vite le trovate eccessive e noiose, perché sembra sempre che qualcuno vi accusi di qualcosa.
    Quante generalizzazioni, “not all men” dio santo! E io capisco questo voler stare sulla difensiva, questo volersi dissociare: care femministe, prendetevela coi maschilisti veri, io di male non ho fatto nulla.
    Però vi siete mai fermati una volta a riflettere quando qualcuno vi ha accusato?
    Avete mai pensato “cavoli, io faccio questa cosa?”, avete mai pensato “nella vita, in che modo evito che la cultura dello stupro e il maschilismo diventino parte integrante del modo in cui ci comportiamo all’interno della società?”. Quando mai lo facciamo? Abbiamo pure vergogna a definirci femministi, ma su, siamo ridicoli. Cosa significa non essere femminista? Pensi che le donne siano inferiori? Che debbano stare in casa a cucinare? Per piacere.
    Però una cosa che ho notato è che quando si parla di violenza di genere, di femminicidi, di discriminazione di genere, differenze salariali, c’è sempre qualcuno che tira fuori il classico “e allora gli uomini?”.
    E allora lo dico io vorrei rispondere.
    Quanto vi siete interessati del fatto di non avere uno straccio di dignitoso congedo parentale? Quanto vi lamentate con gli amici del fatto di non potervi truccare o mettere una gonna se vi va? Quanto spesso parlate tra di voi dell’impotenza, dell’eiaculazione precoce, della sessualità, dell’invertire i ruoli nel sesso ed essere succubi e non dominatori, della fatica a manifestare apertamente le vostre emozioni e le vostre fragilità? Quante pagine seguite che parlano di problematiche maschili radicate nel patriarcato? E che non siano un pretesto per odiare le donne e il femminismo (rimaniamo fuori dalla corrente RedPill).
    Quante di queste cose fate quotidianamente? Quanto vi siete interessati degli uomini che subiscono violenza da mogli, compagne ed ex mogli?
    Quanto vi interessate degli uomini transgender che subiscono violenza?
    Quanto ci interessiamo di queste cose? Quanto vi interessate voi uomini dei problemi che vi riguardano più direttamente? Poco o niente. Saltano fuori giusto quando il dibattito è incentrato sugli svantaggi delle donne, lì diventano tutti paladini della parità di genere: “se le donne vogliono essere sullo stesso piano non devono essere avvantaggiate”, “e della violenza subita dagli uomini non se ne parla?” ecc…


    E mi sono sempre chiesta, perché parlare di un certo argomento toglie importanza ad un altro? Sto parlando di femminicidi e tu ti rendi conto che potrebbero esserci anche molti casi di violenza di genere subiti dagli uomini che non vengono denunciati. Parlane. Informati. Renditi conto che esiste un problema se un uomo non può denunciare una violenza perché rischia di passare sempre dalla parte del carnefice.
    Renditi conto che c’è un problema se una donna che denuncia una violenza o un abuso si sente dire che doveva dirlo prima, che se l’è cercata, che la responsabilità è sempre sua e non di chi usa violenza.
    Non so voi, ma io non sono contro gli uomini ma io sono contro la violenza e contro il patriarcato.
    E dovremmo sforzarci di capire dove sbagliamo, perché è nella vita di tutti i giorni che alimentiamo questo meccanismo. Ogni tanto dovremmo tutti e tutte provare ad avere l’umiltà di dire: “sì, sono maschilista, cosa posso fare di diverso?”.
    Ora ve lo richiedo. Siete i buoni?

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    In veste di chi mi sento autorizzata a dare consigli? Di che cosa sto parlando? Cosa voglio raccontare? Cosa voglio insegnare? Sono queste le domande che mi frullano nella testa. Un po’ di tempo fa un amico mi ha consigliato di partecipare ad un contest letterario organizzato dalla nostra università. L’idea mi ha attirato, mi ha stimolato, ma dal mio cervello pare non essere uscito nulla di produttivo, nulla di utile, nulla di vero e spontaneo. Per anni ho scritto e mi è piaciuto scrivere, e mi piaceva perché mi veniva spontaneo, buttare giù qualche riga per quel contest per me è stato come fare una serie di piccoli rutti, quelli che si fanno quando non si digerisce bene qualcosa e si è ad un passo dal vomito. Ho abbandonato l’idea ma questo mi ha portato a chiedermi se fossi ancora capace di scrivere, se avessi ancora quella dote. Da quando ho iniziato fisica ho accantonato/perso man mano le mie “doti naturali”, istintive, per così dire, e ho sviluppato molte skills di un genere che non sapevo nemmeno che esistesse. L’impegno, l’organizzazione, la costanza, la capacità di approcciarsi in modo diverso a problemi diversi, il fatto di cominciare da zero e provare ad imparare senza esprimere troppi giudizi su se stessi. Sono tutte cose che bisogna continuamente cercare di allenare e migliorare, non hanno nulla a che fare con quei talenti che si hanno dalla nascita. So che non diventerò un’eccellente fisica, ma so che ho la capacità di affrontare determinate situazioni, che posso sviluppare molti approcci diversi in base al contesto e alla necessità. Non pensavo fosse quello che volevo dalla fisica ma lo sto scoprendo man mano. E’ una materia che si lascia scoprire e che ti permette di scoprirti. Conoscersi è importante nella vita, nella propria carriera. Per questo credo sia importante abbattere quelle finte certezze sul talento, sull’essere portati, sull’avere una predisposizione. Sono cose che esistono, ma il fatto che spesso costituiscano una strada comoda non le rende la strada giusta per voi. Che poi cosa significa “strada giusta”? Una strada cambia, evolve, cresce, si dirama e si struttura in modi tanto più complessi quanto glie lo concediamo. Tutto il discorso è per dire che non è necessario decidere di fare quello in cui si è bravi o in cui si crede di essere bravi, non è sbagliato, ma non è sbagliato neanche decidere di barcamenarsi in qualcosa di del tutto nuovo e che può, eventualmente, aprire una porta su qualcosa di voi che ancora non conoscevate, con il quale non eravate minimamente confidenti.
    Ed ora arriviamo al nocciolo di tutta questa digressione. Io da sempre ho stabilito di essere una brava scrittrice, per così dire, ed una piccola dimostrazione del contrario mi ha messo in crisi. Perché improvvisamente ho sentito come se non avessi più nulla a cui aggrapparmi. Mi sono sentita come se fossi destinata ad essere mediocre in ogni cosa che facevo. Ho guardato video di Youtubers, e letto articoli di persone capaci, capaci sia di comunicare che di informarsi, di preparare un discorso con una logica, uno sviluppo, una base profonda di ricerca alle spalle (in diversi ambiti). E mi sono chiesta, che cazzo lo tieni a fare un blog? Cosa dici alle persone? A cosa serve quello che fai? Come posso nel futuro riuscire a fare qualcosa che mi gratifichi, mi realizzi e che possa essere utile? La risposta non è arrivata ancora, ma se c’è una cosa che mi viene bene è rimuginare, per cui il discorso non finirà qua, con tutta questa serie di punti di domanda.
    E’ spaventoso dover guardare in prospettiva, ecco perché la stragrande maggioranza delle persone predilige risposte semplici a problemi complessi, perché approfondire è pesante, è faticoso. Ti fa sentire figo leggerti mezzo articolo in più ma in realtà continui a non saperne un cazzo, a brancolare in informazioni acquisite parzialmente e alla rinfusa. Per guardare in là bisogna sforzarsi di avere una visione d’insieme e, anche se non lo si comprende, di rendersi conto che è pieno di variabili in gioco, di trame intricate e strutturate che non riusciremo mai a vedere del tutto, neanche focalizzandoci una vita intera su una di loro. Per questo è meglio fare finta che le cose siano bianche o nere, che ci siano i buoni o i cattivi e vomitare giudizi e opinioni a caso su cose che non si conoscono bene.
    Spero di avere almeno l’umiltà di impegnarmi a capire, per ora non moltissima, vorrei solo che mi fosse tutto chiaro, che le cose che mi piacciono e mi appassionano mi venissero spontanee. Un po’ questa contaminazione mi è rimasta e l’idea di dovermi impegnare in una cosa nella quale, in un futuro, potrei non essere dannatamente brava, o per la quale non sono portata, mi spaventa. Mi spaventa a morte. E vedete anche qui è sbagliato. Non c’è niente di più bello di imparare e di cambiare, facendo spesso qualcosa per cui “non si è portati” si potrebbe finire col saper fare molte cose diverse.
    Sempre con lo spirito di chi sa di non sapere, e allora sbatte la testa, chiede, cerca, tenta e ritenta e pian piano scopre tanti piccoli mondi, sia fuori che dentro di sé.

    Camilla

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    Ho pensato di trattare un argomento un po’ diverso questa volta. E’ inutile che faccia la guru della motivazione se poi di fatto ho la forza mentale di un fagiolo. Stare chiusi in casa comporta malauguratamente (o per fortuna) l’innescarsi di riflessioni su sé stessi. Credo sia proprio dovuto al fatto di poter osservare in un ambito più ristretto il nostro umore, il nostro comportamento. Si ha la possibilità di circoscrivere i propri problemi e renderli accessibili ed analizzabili. Nella vita di tutti i giorni, strapiena di interazioni sociali, di imprevisti, di variabili sarebbe troppo difficile e magari troppo stancante. Attenzione, perdersi in lunghi monologhi interiori non è sbagliato, rimuginare sui propri limiti, sui propri difetti e sulla propria visione delle cose può essere frustrante e rivelatore in un certo senso. Quelli da evitare (e qui siamo tutti d’accordo), sono i pensieri a vuoto, i pensieri non fini a sé stessi ma che germogliano su ansie ed insicurezze con lo scopo di alimentarle.

    Introduco così l’argomento della percezione del proprio corpo e di tutto ciò che ne consegue e ne voglio parlare perché penso di non essere l’unica ad aver bisogno di buttare via un po’ di spazzatura mentale relativa a questa faccenda.

    Ho passato diversi mesi ad usare il cibo come valvola di sfogo, ogni pranzo era un’occasione per concentrarmi su qualcos’altro. Mangiare e bere si intende, l’alcol ha la sua bella responsabilità in tutto ciò. E ho cominciato ad andare ben oltre i miei limiti, più e più volte, ogni pranzo in famiglia, ogni uscita a cena diventava un momento per ingozzarmi, per superare ampiamente il livello della sazietà. Ho iniziato a stare male, a mangiare così tanto da dover buttare fuori tutto dopo, intenzionalmente, come se sentissi di aver sovraccaricato il mio corpo e il mio stomaco non poteva farcela. Le volte che non lo facevo impiegavo una vita ad assimilare e digerire quello che avevo mangiato. E non funzionava certo per dimagrire, alla fine dell’estate avevo raggiunto il mio massimo storico sulla bilancia. Questa cosa è diventata sempre più frustrante col tempo, nascondere la pancia con gonnelloni, avere l’ansia prima di ogni pasto perché sapevo che avrei esagerato e mi sarei fatta del male. Non mi sopportavo. E forse i miei limiti fisici, forse la stanchezza di affrontare queste situazioni mi hanno aiutato pian pianino a smetterla e a mangiare con più piacere, più calma e meno voracità. Attenzione, non vi sto parlando di bulimia, non è quello che ho superato, non so se ci sarei arrivata, può essere. Chiaramente questo è un post in cui riporto il mio vissuto, qualcuno potrebbe ritrovarsi, ma non pretendo di fornire rimedi o spiegazioni.

    La prima cosa che mi ha aiutato a sbloccarmi è stata farlo per la mia salute. Stitichezza, fatica a digerire quello che mangiavo, la sensazione di esplodere dopo ogni pasto, non era così che volevo vivere il cibo, volevo viverlo in maniera normale e controllata, tutto lì. Questa quarantena mi sta aiutando incredibilmente a dimagrire, senza rispettare diete ferree, semplicemente evitando di mangiare in quel modo. Non è automatico e il fatto di essere in casa con qualcuno che cucina al posto mio e mi fa trovare pronti sempre degli ottimi piatti ha di certo un’influenza. Cerco di fare un po’ di esercizio tutti i giorni e mi sono pesata nelle ultime settimane senza pretese, giusto per tenere monitorato il mio peso ma nulla di più. L’ultima settimana ho messo su un chilo, un po’ di delusione, ma pace. Il chilo in più non se n’è andato, poco fa mi sono pesata ed oltre a lui c’era un altro suo amico, un altro chilo in più che mi prendeva a braccetto. E lì sì che non sono rimasta indifferente. Lo scorso weekend ho messo un vestito aderente, fiera di essere più snella del solito, sentendomi più magra del solito, oggi mi sono guardata e ho visto un corpo diverso da quello che volevo. Troppa pancia, troppa pancia, ma perché è così tanta? Non ho mangiato tanto di più. Poi ho pensato che nel giro di qualche giorno potevo anche aver messo su un chilo ma di certo la mia pancia non poteva aver subito dei cambiamenti così rilevanti. Ero solo io. Quegli occhiali che indosso quando sono insoddisfatta di me che mi fanno vedere un corpo che non mi piace, anche se non ha nulla di diverso da quello che poco tempo prima mi piaceva. E improvvisamente diventi brutta, e tutto diventa brutto e vorresti non mangiare per due giorni ma in realtà l’effetto è esattamente l’opposto, mangeresti di più per nervosismo e frustrazione.

    Molte volte si è innescato questo meccanismo dentro di me. Un attimo prima bella, poi scatta qualcosa e sei brutta. Ora bella. Adesso brutta, e avanti così. Quello che più mi ha svilito è stato rendermi conto che quell’equilibrio che credevo di aver parzialmente raggiunto con il mio corpo e con quello che mangiavo era solo illusorio e che, da un momento all’altro, poteva crollare. Ed è quello che mi fa sentire così debole, così fallibile, il fatto di arrivare sempre allo stesso punto per ricominciare, di non avere mai una formula, un momento in cui posso dire “okay, è andata”, è un continuo tentare e so che sarà sempre così. Non è come un esame che basta studiare per un po’, magari farsi il culo e alla fine lo si passa. E’ più come la scienza in sé, ovvero non finisce mai, non si giunge mai al punto di conoscere tutto, bisogna andare avanti a provare e scoprire. Nel ramo della ricerca è molto più stimolante e poetico di quanto non lo sia il fatto di mettersi a dieta. Però ci siamo capiti. Non è un dramma. Sono fatta così, come la scienza per la sua natura intrinseca significa dubbio costante.

    Il problema risiede nell’incessante lotta contro la propria indole, la propria natura. Migliorarsi, voler dimagrire, volersi prendere più cura di sé e del proprio corpo non è sbagliato, ma struggersi all’infinito per il fatto di doverci mettere impegno lo è. Farò fatica, farò sempre fatica, ci sono persone che riescono a mangiare il giusto e a fare attività fisica con la naturalezza con cui io instauro relazioni con gli altri e bevo lo spritz. Certo che è frustrante ma lo è ancor di più pensare che non dovrebbe esserlo, pensare che non è normale la difficoltà che abbiamo e che anche se ci impegniamo non saremo mai al livello degli altri. Non esistono livelli. C’è il mio livello, e il mio livello è cercare ogni giorno di fare quel piccolo sforzo, di fare quella ginnastica, di essere un po’ più attenta a quello che mangio, di non guardarmi allo specchio come se ogni mio passo falso si potesse riversare sul mio aspetto. Non è così. Basta colpevolizzarsi, la colpa e la scarsità di indulgenza verso di sé portano solo a più paura ed insicurezza verso qualsiasi obiettivo ci si ponga. E mettere su un chilo non è sbagliato come non è sbagliato volerlo perdere, l’equilibrio è importante, ed è importante dare alle cose il significato che hanno senza trovare pretesti per immergersi in una piscina di autovalutazioni negative.

    Questa è un po’ la mia piccola esperienza in merito, e il modo in cui sto cercando di gestirla, e voglio partire per farlo dalla percezione che ho di me, credo sia quello che conta davvero.

     

    Camilla

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    Aspettavo di avere una sorta di illuminazione mistica, di svolta spirituale prima di scrivere un nuovo articolo. Sono stata particolarmente zen nelle ultime settimane, l’altro giorno vaneggiavo ammaliata dall’idea di comprarmi un kit per i tatuaggi henné. Volevo scrivere qualcosa di motivazionale, frutto di lunghi momenti di profonda introspezione. La svolta kung-fuica non è arrivata, ma in compenso è arrivata una favolosa tastiera wireless nuova di pacca e chi sono io per non sfruttarla? Quindi oggi, la giornata meno all’insegna dell’equilibrio mentale del mese, scriverò qualcosa che non sarà per niente illuminante e per questo vi chiedo scusa.

    Stamattina mi sono alzata carica di entusiasmo e buoni propositi. Curioso come i buoni propositi nel corso di dodici ore possano sgretolarsi miseramente ridendoti in faccia mentre lo fanno. Riuscire ad affrontare un lungo periodo di quarantena significa assimilare una serie di deliziose abitudini e far sì che la routine diventi vostra amica. Ed è molto difficile, richiede un certo addestramento mentale. Il mio addestramento comincia la mattina quando decido di alzarmi alle 7 per fare esercizio fisico. E’ molto più comodo alla mattina, poi vedrai che energia, che carica che ti darà, la dopamina, fallo per la dopamina, dopo studierai con più entusiasmo e almeno se finisci tardi alla sera puoi riposarti al posto che metterti a fare addominali. Rimango a letto fino alle 7:30/8 e quando capisco che ho già iniziato a disprezzarmi un po’ allora mi alzo e vado a fare colazione. Mi porto su alla scrivania in camera la mia tazza di latte d’avena macchiato e lo degusto mentre scribacchio qualcosa sul diario o leggo un paio di pagine del mio libro. Decido di iniziare a studiare alle 9 perché così posso fare un’ora e mezza, pausa, un’altra ora e mezza e poi prima di pranzo uscire un attimo a prendere il sole. Rispondo a qualche messaggio, mando infiniti audio, leggo articoli del Post, guardo Breaking Italy, rispondo ad altri duemila messaggi, scopro fantastici filtri su Instagram. Inizio alle 10. Ora faccio un’intera prova d’esame di meccanica analitica e niente pause, adesso si fa sul serio. Per due ore rimango impantanata in un esercizio che sembrava tanto semplice e invece mi chiede addirittura di trovare le soluzioni alle equazioni del moto. Roba da matti. Scrivo a quindici persone diverse per chiedere aiuto e spiegazioni, le spiegazioni magari arrivano dopo un’oretta, oretta che ho passato ad imprecare. Tutto ciò per poi scoprire non senza amarezza che la tipologia di esercizi come quello in questione non saranno nella prova scritta. Faccio mente locale per un po’, tra un tic nervoso e l’altro mi chiedo quali dannatissimi esercizi dovrei mettermi a fare allora. Li trovo e mi dico, okay. Ora sei nervosa, esci a leggere un po’ al sole e poi appena dopo pranzo, alle 14:30 si riparte a manetta. Alle 16, dopo aver fatto non so cosa di preciso (probabilmente c’entrano ancora i filtri Instagram) e aver nuovamente mandato in vacca il mio progetto, mi metto a studiare. La storia avrà un lieto fine? Vi starete chiedendo. Beh, no. Mi blocco su un esercizio, chiedo in giro, nessuna risposta. Trovo consolazione e i tentativi delle mie amiche di tranquillizzarmi. Funzionano in parte, nonostante rimanga molto delusa dagli scarsi frutti della mia giornata di studio.

    Per questo vi dico che la routine è fondamentale. Perché è un addestramento giornaliero per abituarsi a portare a termine i propri progetti, magari piccoli, ma con il preciso scopo di aiutarvi a raggiungere sempre degli obiettivi. Non importa che siano di poco conto o a breve termine. E’ l’abituarsi ad avere tante innocue scadenze quotidiane. Una sorta di To do list da cercare di completare. E credo sia importante innescare dentro di sé questo meccanismo, per imparare a ad avere più controllo sulle nostre decisioni, su come ci organizziamo, su come gestiamo il tempo a nostra disposizione, su come scegliamo di affrontare momenti di stress e frustrazione o contrattempi. I contrattempi ci sono sempre, io inciampo continuamente negli imprevisti, ma bisogna trovare il modo di arginarli e seguire il proprio programma. Il discorso che sta dietro all’abitudine è il fatto di sviluppare automatismi da una parte, in modo che fare determinate cose col passare del tempo non costituisca più una forzatura, ma una necessità. Dall’altra parte invece si tratta proprio di autocontrollo, sviluppare la capacità di fare ciò che ci siamo prefissati senza che ci siano punizioni esterne, o scadenze imminenti, esami da dare o capi che ci sgridano se non svolgiamo il nostro lavoro. Siamo noi i capi di noi stessi, soprattutto in momenti come questi in cui abbiamo il totale libero arbitrio nell’organizzazione delle nostre giornate. Il che può anche voler dire capire quando è necessario staccare la testa un po’ da tutto.

    Per quelli come me un’altra cosa che credo andrebbe imparata -e con la quale non ho ancora grande dimestichezza- è il ritagliarsi dello spazio per rilassarsi. Sembra una stronzata, vero? E invece io mi accorgo di approfittare della quantità di tempo che ho a disposizione per rendere più lungo, discontinuo e pesante quello che sto facendo, nello specifico quello che sto studiando. Quando so di avere un’intera giornata, se non ho un piano su come affrontarla, significa dare alla mia testa il via libera, lasciarla vagare, dirle che le è richiesto un qualche tipo di sforzo però non è ben precisato né tanto meno inquadrato in un certo intervallo temporale. E’ di fatto uno sforzo diffuso ed esteso a tutte le 10 ore che ho a disposizione, il che è molto più stancante, rende poco produttivi ed è terreno fertile per la frustrazione e l’insoddisfazione. La vittima migliore sono i procrastinatori che pensano che il “sé” di dopo sarà sempre, per qualche motivo, più volenteroso del “sé” di ora. E’ importante focalizzare le proprie energie e prendersi le giuste pause. Serve respirare, pensare ad altro, riposarsi, fare qualcosa di piacevole senza avere l’ansia di star buttando via del tempo prezioso. Quel piccolo momento che vi siete ritagliati è fatto apposta per permettervi di staccare. Cosa che non avviene quando ci si distrae o si cazzeggia nel bel mezzo del “dovere”, non si vive la distrazione con serenità ma con un sottile ed infimo senso di colpa che vi sta implorando di concludere quello che avete iniziato.

    Quindi il sunto è questo: imparare ad organizzarsi ed imparare a rilassarsi. Quando io ci sarò riuscita sono certa che potrò scrivere qualcosa di molto più saggio in merito. Per ora ogni giorno riprovo da capo, passo dopo passo, cerco di costruire il mio piccolo schema mentale per nutrire un po’ di sana gratificazione verso quello che faccio. E spero per voi che il vostro sistema sia più efficace del mio.

    Camilla

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    Ho pensato che questo strano periodo che stiamo vivendo una riflessione la merita. Anche se le mie riflessioni sono più introspettivi monologhi deliranti, ma ci proviamo. Mi sento molto stupida a soffrire così questa situazione. L’altro giorno leggevo dei profughi siriani, di migliaia di bambini che tentano il suicidio dalla disperazione per la miseria in cui vivono. Senza cibo, senza riparo, senza la possibilità di lavarsi, di andare in bagno, con le fogne che scorrono tra i loro letti sbattuti per terra, a volte sotto tende non impermeabili. Con il freddo già nel sangue più che sulla pelle. Dei bambini non dovrebbero neanche sapere cos’è il suicidio, non dovrebbero neanche pensare che esiste la morte e invece loro sì, loro tutti i giorni in faccia ce l’hanno, nel cuore ce l’hanno. E io qui, che piango. Che piango perché ho paura. Che piango perché mi sento sola o meglio sento di essere da sola con i miei pensieri. In un silenzio assordante in cui sprofonda il mio cervello, ogni secondo che passa sempre più giù. E vorrei solo avere la forza di fare qualcosa, di sfruttare questo tempo, di trasformare tutto questo in qualcosa di utile. Lo dovrei a quei bambini così tristi. Lo dovrei a chi, in questo momento, ha delle serie preoccupazioni perché non può più lavorare o ha una persona cara ammalata, a chi sta lavorando in ospedale fino a crollare stremato la sera senza la forza nemmeno di pensare. Io sono solo distante da tutto. Qua rinchiusa nella mia personale bolla di malessere. E vi dico che sono stanca. Sono stanca di dover piegare la mia vita al mio umore, e a ciò che la mia testa mi dice. Sono stanca. Sono stanca di dovermi sforzare di non essere triste, di non aver paura. Vorrei solo provare a fare del mio meglio senza avere un ostacolo così grande e così ostinato dentro di me.

    Ma credo che la verità sia che ognuno sta vivendo questo momento con le sue personali difficoltà, con le sue intime paure e dubbi, alcuni di certo con problemi completamente slegati da questo virus e da quello che comporta. Penso a quei professori universitari e non che si stanno facendo in quattro per non lasciare da soli gli alunni, penso a chi non sta vivendo questo periodo come una vacanza ma come una situazione di difficoltà in cui è necessario stravolgere ogni schema e trovare soluzioni alternative. Il fatto è questo. Forse anche io mi ritrovo a dover trovare soluzioni alternative e non sono bravissima a cambiare. Non sono brava ad affidarmi solo a me stessa, ma in qualche modo andrà fatto. Speriamo che lo scopo di quest’epidemia sia di darci del tempo per riflettere su noi stessi, darci del tempo per capire quanto siamo onesti in ciò che facciamo. Spero per me stessa e per tutti coloro che come me si sentono così smarriti, che tutto questo tempo ci serva a concludere qualcosa, ad imparare qualcosa, ad allenarci a stare con noi e capire dove si sta andando.

    Dovrei smetterla di distruggermi con i condizionali. Con una vagonata di dovrei, vorrei, avrei dovuto. Di chiedermi il perché di ciò che provo, di non accettare le mie paure e cercare di scacciarle con tutta l’energia che ho in corpo finché riuscirò per un istante a trovare la quiete, ma sarò distrutta dallo sforzo. Mio papà mi ha detto che bisogna fare le cose e basta a volte, e smetterla di struggersi se non siamo al 100%, smetterla di struggersi se non siamo felici, smetterla di chiedersi cosa c’è che non va, di chiedersi se siamo normali a stare così, smetterla di considerare tutto ciò un ostacolo. Non è un ostacolo, non lo deve essere. Sforziamoci di guardare le cose da lontano, mi diceva. Questo post è frutto di giornate intere passate ad analizzare tutto troppo da vicino, troppo da vicino per capirne il senso. E sono stufa di tentare di comprendere qualcosa che forse ha il solo scopo di farmi sentire così sola e confusa e debole. Sono stanca di sentirmi debole ed impotente davanti a me stessa. Dovrei essere io a decidere cosa fare e come affrontare le situazioni di difficoltà e tutti i pensieri e gli stati d’animo che esse comportano. E continuerò a soffrire per stupidaggini di poco conto, scusandomi silenziosamente con chi dei motivi per soffrire li ha davvero, e il mio misero tentativo sarà quello di cercare di ignorare ciò che provo e andare avanti. In qualche modo, tutti noi, si va avanti, con ciò che abbiamo, con tutte le nostre paure. E lo dobbiamo a chi questa gigantesco lusso di avere un’alternativa non ce l’ha.

    Camilla