L’altra sera sono andata col mio ragazzo a vedere Elvis al cinema. Carino ma nulla di che, l’acustica pessima del cinema non ha aiutato particolarmente ad apprezzarne il valore. Però verso la fine viene mostrato un video, uno degli ultimi concerti di Elvis Presley, poco prima di morire, sovrappeso e annebbiato da svariate sostanze. Era il 1977, cantava Unchained Melody ed era lì, tutto sé stesso, con tutto il peso e l’immondizia di una vita consumata dal presente, dall’intensità del palco. Quella canzone mi ha emozionato perché è stato come vederlo condividere completamente un ultimo intimo momento con il suo pubblico, mostrare che per quanto potesse andare tutto male quello rimaneva l’apice, lo era sempre stato.
E ho pensato che questi artisti leggendari, intramontabili, vivono qualcosa di distruttivo, perché incomparabile a qualsiasi altra esperienza o emozione. Solo alcuni possono permetterselo, il costo è quasi sempre di sacrificare la propria vita per quel rapporto, quel legame, quell’amore con la musica, il pubblico, il palco e con sé stessi in un certo senso. Ed è interessante, partendo da qui, riflettere sul peso che ha la felicità nella nostra vita, su quanto la sua costante ricerca possa essere un cammino costellato di infelicità.
Perché quello di Elvis, come di altri artisti, è un caso emblematico? Mentre finivo il film pensavo che, nonostante non lo considerassi un capolavoro, ero così felice che qualcuno l’avesse fatto, che qualcuno ne avesse voluto onorare la memoria. Mi ha sollevato aver conosciuto di più questa storia, come se un piccolo pezzetto di quello che è stato il Re del Rock potesse rimanere con me. Nella mia testa pensavo “tranquillo, non verrai dimenticato”. Nel film traspariva come una delle sue principali preoccupazioni verso la fine della sua carriera. Ma perché era così importante? Perché vivere il presente in quel modo è tanto adrenalinico, riempiente, prezioso, quanto evanescente. Penso che chi viva di momenti del genere abbia costantemente bisogno di provare quella sensazione, di essere lì su quel palco, oppure tutto perde di senso. L’unico senso diventano quei momenti, quella versione di sé, come se fosse la sola esistente.
E il rischio è di essere troppo dipendenti da quella felicità, che poi la vita normale non è più semplicemente ordinaria ma diventa un fardello, diventa vuoto e oblio, spazio e tempo che separano uno sprazzo di gioia da un altro. Come dicevo prima credo che vivere così sia insostenibile, i pochi che l’hanno fatto hanno ceduto al mondo e al pubblico tutti se stessi consumandosi come candele. La ricerca della felicità è rischiosa e fin dai tempi più antichi è la nostra ossessione. Ci siamo evoluti a partire da questa spinta, da questa necessità. Ne siamo così ossessionati come specie umana che la maggior parte delle nostre gesta, di ciò che facciamo e costruiamo con prospettiva è diretto a portarci lì, ad essere felici.
C’è un momento in cui ci si accorge che qualcosa rispetto a quando si era bambini è cambiato. Quando si è piccoli il Natale o le vacanze vengono attese con trepidazione e quando arrivano sono la cosa più bella di sempre. Crescendo quell’euforia c’è ma rimane confinata in una sorta di preambolo della felicità. Quando finalmente arriva la festa ci si accorge che nulla è cambiato, dentro di noi non scatta nessun ingranaggio, non c’è quella magia. Ma allora cos’è successo? Non sono più momenti gioiosi? O forse lo erano anche quelli precedenti? Questo per dire che siamo sempre in attesa di qualcosa di meglio forse, tanto da farci sfuggire quello che c’è già per quanto bello possa essere.
Come si può apprezzare la felicità se si vuole essere sempre felici? La vita non è fatta di questo, né è fatta per questo e, attenzione, non credo che debba esserci solo dolore. Credo che sia importante fare pace col fatto che non tutto è straordinario, che siamo creature troppo complesse per aspettarci che la nostra esistenza possa ridursi ad un certo punto ad una sorta di Truman Show. Imparare ad apprezzare le cose più piccole è quello che allena. Prendere quello che viene, trovare il modo di gestirlo e andare avanti, i momenti belli ci sono sempre anche senza botti e fuochi d’artificio. Badate che il mio non vuole essere un vuoto discorso motivazionale, perché sono ben conscia del fatto che molti conducono vite ed esistenze o anche solo periodi di continua sofferenza, stress e fatica. Questo esula un po’ dal mio discorso, perché non voglio parlare di dolore. Vorrei cercare di capire come mai c’è sempre tanto significato dietro a quello che facciamo e come lo viviamo, un peso enorme su quanto siamo felici, tanta aspettativa sulla nostra vita, sugli obiettivi che ci poniamo e tanti dubbi sull’impegno sufficiente a raggiungerli. C’è sempre un senso più profondo da cercare, e non credo che sia necessariamente sbagliato, però penso anche che forse non c’è.
In queste righe non troverete risposte, speravo di trovarle anche io scrivendo ma mi sono accorta che per domande come queste bisogna vivere un pezzetto alla volta. Che la nostra comprensione della vita viene modificata e ampliata continuamente. Le convinzioni che abbiamo su ciò che è giusto e sbagliato, sul nostro scopo, quello che crediamo di conoscere di noi stessi e del mondo è in continuo mutamento. Dopo il film io e il mio ragazzo avremo parlato per un’ora seduti in macchina, scervellandoci per capire: il senso allora qual è? Come bisogna vivere? Che cosa bisogna fare? Inseguire la felicità? Non inseguirla? E se non la si insegue, che cosa si insegue? È necessario avere qualcosa da rincorrere o da raggiungere? O si può accettare che il vento ci porti un po’ dove vuole, come diceva il buon Forrest Gump, e cercare di fare del proprio meglio, ovunque questo ci porti? Sono solo tante domande. Tante spaventose domande. L’unica cosa certa è che vivere e costruire, costruirsi, guardare sia il futuro, sia il presente, fa tutto una paura fottuta. Eppure la vita è uno di quegli esami pieni di esercizi diversi, qualsiasi cosa tu possa aver appreso ti ritroverai comunque un appello con esercizi fuori dalla grazia di dio, mai visti, senza avere la più pallida idea di come affrontarli. Alcuni si saltano per paura di sbagliare, per mancanza di idee, in altri ci si arrischia e si inventa, altri ancora presentano elementi con cui abbiamo familiarità e che riusciamo a risolvere. Ma alla fine nessuno verrà a valutare le tue scelte, sarai solo tu con quello che hai imparato.