Macchine con un cuore

Una cosa che mi è rimasta appiccicata in qualche modo da una parziale educazione cattolica è quel bisogno morboso del sacrificio per dare un senso alla propria esistenza. E chiariamoci, non sono stata credente poi così a lungo, ma per qualche motivo non sono più riuscita a sbarazzarmi di questo pensiero costante, di quest’abitudine a misurare il mio valore e il riconoscimento delle mie azioni sulla base del sacrificio compiuto. E diventa una questione completamente simbolica, non è più solo “quanto impegno hai dedicato a questa tal cosa”, diventa una necessità di drogarsi con un po’ di sana sofferenza per liberarsi del senso di colpa. Come può essere la nicotina: non ti farà bene, non ti calmerà sul lungo periodo quindi non è utile, però in quel preciso istante ti allevia. Nel mio caso il sacrificio mi allevia dal senso di colpa. Se ho sofferto, se ho faticato sento di non meritarmi il fallimento, di poter riposare e godermi la mia vita con la consapevolezza che la mia serenità in quel momento mi è dovuta. Non si sa da chi, ma mi è dovuta. Sono in pace con me stessa. La frustrazione, la gastrite, la fatica mi faranno vivere meglio quello che verrà dopo. Prima il dovere poi il piacere si dice, no? E invece nessuno ti deve un bel cazzo di nulla.

La tua, la mia sofferenza non hanno necessariamente significato, e nessuno ti premia per essere stato male. Se il tuo impegno ti rende solo terribilmente stressato ma non è in grado di farti raggiungere i risultati cui ambisci è inutile. La realtà è questa. Ci si fa del male sperando che questo sia sufficiente ad ottenere quello che si vuole, perché anche se non crediamo in dio, crediamo che qualcosa di soprannaturale dovrebbe aver visto quanto abbiamo sofferto e capire che ci meritiamo una bella ricompensa. Purtroppo non basta, e la buona notizia è che potremmo struggerci di meno e trovare invece un modo più efficace di raggiungere gli obiettivi che ci siamo preposti. Perché dedizione, impegno e fatica non bastano, le buone intenzioni, sacrificare il proprio benessere sia mentale che fisico (a volte) non porta per forza a dei frutti. Non importa quanto meticolosamente un ingegnere possa cercare di progettare e costruire un aereo, se non vola è inutile. L’aereo non spiccherà certo il volo perché riconosce gli sforzi del povero ingegnere che non ci ha dormito la notte. L’aereo se ne sbatte del sacrificio e del senso di colpa.

Questo è un aspetto con cui ho dovuto avere a che fare. Capire che l’assiduità con cui si svolge una mansione per raggiungere un certo scopo è fondamentale, ma fondamentale è anche capire qual è il modo giusto di farlo per riuscire ad ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, o qualcosa che assomigli a questo magico processo. Entra in gioco, almeno nella mia testa anche l’aspetto punitivo di questo ragionamento malsano. Il sacrificio è la punizione per il fatto di essere improduttivi. Da che ho a che fare con lo studio convivo con questo problema, non so dividere il mio tempo nel dare il 100% o rilassarmi come si deve. La mia mente va al 60% e questa percentuale per rendere effettivo ciò che sto facendo deve essere spalmata su tutto il tempo che ho a disposizione. Rilassarsi non è contemplato e non lo è perché è giusto che io mi punisca per la mia inefficienza.

Perché è importante rendersi conto di quanto è deleterio questo ragionamento? Intanto lo è per riuscire ad affrontare i propri doveri e la propria vita di tutti i giorni con più serenità credo. Ci sono già molti stress a cui si può essere sottoposti e spesso è difficile non vivere in uno stato semi-costante di ansia, per questo è importante il come. Come si gestiscono i propri impegni, il proprio tempo. Perché il nostro tempo è prezioso, non è una cosa che dobbiamo abituarci a barattare con facilità, una cosa che è scontato decidere di dedicare interamente al proprio lavoro o studio. Mi sto accorgendo che, per quanto queste attività assorbano i nostri pensieri, nella vita c’è ben altro, e spesso ci risulta difficile slegarci da esse. Riuscirvi, dedicarvi tutto il nostro tempo e le nostre energie diventa un modo per acquisire il nostro valore, di poterci valutare.

Ma c’è un altro motivo per cui è meglio imparare il prima possibile a non autoinfliggersi inutili sofferenze nella speranza che queste portino ad un risultato. Perché alle volte capita che quelle sofferenze siano necessarie, che bisogni rimboccarsi le maniche, dare tutti sé stessi, consumare fino all’ultimo briciolo della propria energia per riuscire ad adempiere ad un certo compito. Può capitare, e può capitare anche che non sia sufficiente. Che qualcuno valuterà solo una piccola performance finale che dovrebbe rappresentare tutto il lavoro fatto alle spalle, e se quella performance, per un milione di motivi, si rivelerà carente, tutto il resto non avrà importanza.

Mi sto accorgendo a malincuore che, a volte, l’università è anche questo. Professori che non ti guardano in faccia, che non guardano a chi sei, a come stai nel momento in cui arrivi a fare un esame dopo aver dedicato la tua vita per mesi e mesi solo a quello. La tua è una performance, e se non sei performante vieni bloccato lì. Ovviamente non riguarda qualunque professore, né qualunque studente questo discorso. Però è il motivo per cui forse ad un certo punto bisogna rivedere le proprie priorità, ricominciare a dare un valore a sé stessi in quanto esseri umani e non macchine con determinate prestazioni. Perché capiterà così spesso di essere visti solo per ciò che si produce, almeno noi con noi stessi dovremmo provare a vederci come persone, e imparare a riconoscere cosa ci serve per vivere in questo mondo, con questa dannata testa, e con gli altri.

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