Questi corridoi hanno un che di logorante e famigliare. Sempre identici a sé stessi. Ti ricordano un dolore, una frustrazione dalla quale, è strano, ma non riesci ad allontanarti, a staccarti.

Ho mille ricordi diversi che si ambientano nello stesso posto, tra queste mura malandate del Dipartimento di Fisica. Tutto resta uguale, immutabile. Mi sembra di essere Alice che mangia il pasticcino (o beve la pozione, non ricordo) e diventa sempre più grande finché le braccia non le escono dalle finestre e la testa dal camino. Mi aggiro per questi corridoi, quando vado verso il bagno mi chiedo quante stracazzo di volte avrò fatto questa strada in 5 anni e mezzo. Il personale, i docenti, i dottorandi che mi incrociano o hanno gli uffici lì mi vedranno come una specie di testuggine centenaria. Avete tutti presente, per chi ha frequentato l’università, quei personaggi che vedete perennemente aggirarsi per la facoltà, diventano delle sorta di mascotte dopo un po’. Chi sarà? Cosa farà? Quanti anni avrà? Io mi sento così, uno spirito nel purgatorio che vaga all’infinito. E’ eccessivo paragonare Fisica al Purgatorio di Dante, me ne rendo conto. Però la metafora rende l’idea secondo me.
Viene da chiedersi “che cosa ci faccio ancora qui?”. Perché mi sono incaponita su questa follia? Perché continuo a fare avanti e indietro per questo corridoio sperando al ritorno dal bagno di avere la soluzione? Che dopo una soddisfacente pisciata andrà meglio? Non è mai così ma quel breve tragitto, ogni volta, da 5 anni mi dà un briciolo di conforto. Perché in realtà non ho la risposta a queste domande. So solo che sono arrivata fin qui, e quindi devo tenere duro e andare avanti. So solo che quando sogno ad occhi aperti il momento della mia laurea mi viene da piangere e quindi forse vale la pena arrivarci.
Mi mancano 5 esami. Sono stufa di sentire questo fottuto numero. Sono 5 da troppi mesi oramai, sembrano diventati come i muri e i corridoi di questo posto…non cambiano. E sono anche troppi i mesi passati ad assillarmi sul perché non riesco, perché prima riuscivo, perché faccio sempre gli stessi errori, perché sono qui ancora, perché non sono diversa. La mia testa è piena di perché, ma a pensarci bene è anche piena di “e se…”. E se alla fine non ce la facessi? E se fosse tutto inutile? E se non fossi all’altezza? E se il mio futuro fosse diverso da come l’avevo immaginato? E se fossi bloccata dalla mia paura, dal mio senso di inadeguatezza? E se fossi troppo vecchia? Fa ridere, vero? Ventiquattro anni, sentirsi troppo vecchi. Però succede quando dai esami con gente che ha uno, due, tre anni meno di te. Ci pensi un po’, alla cosa della testuggine di prima.
Sono giunta alla conclusione che i “perché” e gli “e se…” dopo un po’ rompono il cazzo. Soprattutto quando sono buttati lì così, retorici, non vogliono una risposta, te la stanno implicitamente dando loro. Vogliono solo che pensi al disastro che sei. Forse per questo non sarò una brillante fisica, i miei perché sono un po’ fini a sé stessi, non si mettono davvero in discussione. Non voglio capire sinceramente come funzionano le cose, a volte voglio solo sapere perché diamine io, Camilla Bocchi, non riesco a capirlo.
Forse è meglio concentrarsi sui “come” e sul presente. Pensare al futuro è utile ma è anche una bastardata, che se ci pensi troppo ti blocchi nel presente, il futuro diventa fumoso, e allora vai nel panico e fai ancora più casini nel presente, finché nel futuro vedi solo dannazione eterna (sempre per rimanere sulle metafore dantesche). Non ti sfiora il pensiero che forse è il caso di lasciar perdere le predizioni approssimative degli “e se…”, il rimuginio sul passato dei “perché”, e abitare il momento, l’attualità. Chiedersi “come”. Come cambiare, come fare qualcosa di diverso, come stare bene, stare meglio. Come andare avanti. Trovare dei modi efficaci per raggiungere piccoli obiettivi che, se raggiunti, hanno un potere così grande.
Quindi eccomi, bevo il caffè delle macchinette, con disgusto perché odio il caffè, ma per qualche malsano motivo devo berlo. Sto appoggiata col culo al calorifero del primo piano, davanti alla biblioteca. Guardo i dettagli intorno a me e penso che è proprio tutto uguale, chissà come lo vedevo anni fa, questo grigiume fuori dalla finestra, tipico pavese, questa scale salite e scese da gente che nella mia testa è sempre rigorosamente più in gamba di me. Sono una bella egoriferita anche io. Come se tutto in questo posto fosse rapportato alla mia bravura, sono solo io a fare questi confronti. Il dipartimento, quest’edificio che sembra un manicomio abbandonato, semplicemente mi accoglie, mi sfinisce, mi sopporta e mi ignora.
Una cosa fa la differenza però: le persone. “Le persone sono tutto quello che hai” diceva Belinda in Fleabag. Ed è vero. Le persone che ho conosciuto qui dentro, con cui ho condiviso momenti, spazi, esperienze. E non parlo solo degli amici, quelli si sa che ci sono. Parlo della gente di questo posto. Di chi si conosce dando gli esami, di chi si incontra per questi corridoi, a lezione, prendendo quello schifoso caffè e raccontandosi le proprie storie, la propria stanchezza. Anime in pena con gastriti croniche e difficoltà a dormire. Spero di ricordarmi di quante più persone possibile. Sono l’unica cosa così bella, così mutevole in questo dipartimento statico. Come piccoli fiorellini colorati in un terreno arido.
Oggi ho scritto ad un amico dopo un sacco di tempo che non ci sentivamo. Non eravamo amici stretti però abbiamo condiviso molti pranzi assieme. E’ un ragazzo intelligente, portato per la fisica, timido all’inverosimile. Dopo un po’, ma non so bene da quando, ho smesso di vederlo girare in biblioteca, per i corridoi, a pranzo. Io ho cambiato abitudini, location di studio, ma avevo un brutto presentimento. Così gli ho scritto e mi ha detto che ha lasciato l’università. Quel ragazzo così brillante. Mi sono dispiaciuta tanto, ma poi ho pensato che forse c’era da dispiacersi per come doveva stare prima di prendere quella decisione. Gli auguro il meglio.
E’ stata questa notizia che mi ha fatto scrivere. E mi ha fatto anche pensare: Camilla, sei proprio una stronza testarda.